martedì 11 luglio 2017





A volte dimentico e mi scopro
a tirar di dadi e ad aver soffiato
nel vento il risultato
prima di averli tirati.
     Canto poi il mio canto
nelle canzoni della creta,
e sogno d'esser melodia
che nell'argilla sogna di cantare
attraverso la voce
di tutte le cose che diventa.


giovedì 2 marzo 2017


Del primo novilunio ora canto
quando l’oscura madre della notte
a me venne
e rapita l’anima mia
giallo e nero oro, finché fui sazio
in essa riversò.
Del tormento,
del roder l’ossa delle dita sminuzzate
dai miei piccoli aguzzi denti veloci,
dimentico ora e liberi siamo,
ed del primo canto nell’alba nera
si tingono ora queste oscure parole
d’ossidiana,
tra lucenti zampilli di scimitarre nella bocca della notte,
tra rossi fendenti d’artiglio,
scagliati nel freddo respiro sotto questo cielo senza luna.
L’aero saturno, sulle note di un fresco zefiro
porta doni vestiti di parole,
che come la verità tra mille costumi,
dinnanzi a noi eternamente ci si mostra.
     Divenne fratello della notte e del giorno
figli di una madre vestita di stelle
e gemello nel sangue
della scintilla del sole.

venerdì 24 febbraio 2017


Mi destai sul gioco mostruoso
interrogandomi sul chi fosse
a muover la tua mano
nei giorni che in vita trascorsi
ora cocenti al meriggio
nella calura la cicala annoiata,
ora fradicio di monsoni ed oceani
sul tuo corpo rivoltati in burrasca.
     Ed  i venti di spirito traboccanti
si riversarono come un oro nero
dalle pronde oscurità dell'abisso immortale,
la spelonca dell'oscuro artigiano,
come furie dai rapaci artigli le vette
delle torri del tuo cuore aggredivano,
straziando le urla i bei cieli mortalmente feriti.
     Ma qual'è la mano che le stelle muove,
e quale per il sole, ed il figlio suo furente?

martedì 21 febbraio 2017


   

C'è del vero in ogni menzogna,
e tra le menzogne i falsi tutti 
carezzano il volto d'oro del Vero. 
Svelando tinte infinite 
su drappeggi cangianti
dal vento in scompiglio,
con cui ella sorride
per poi ancora velarsi,
sull'onda del respiro
lo spirto argenteo, il tuo firmamento;
Ora imago,
ora perso nel riflesso 
dello stagno arruginito.
     A salir per gli eterni flutti 
del divenir ignoto
perdetti il flauto sulla cima adombrata
di pioggia, al tamburo del terrore,
donasti il canto al primo usignolo
mentre i carri in cielo, nei tempi di guerra 
uno spezzarsi d'ali,
un cadere di becchi
nel diventar chi fossi, per esserne il Nome.
Onorar la Legge e covar la vendetta.
     Il cuore tuo immenso 
alla bianca Ondina del sonno accordasti
così che con essa 
nell'amor eterno della sua vita,
nella tua mortal lo perdesti.
     Ed a puntar alto nel viso
che in sogno apparse, sì leggero sull’aria
amato e distante
sulle ali di airone
che nessun aquila fronteggia, e per mare
e cieli e gli inferni,
nell'immenso che il nostro fuoco riconquista
nella ferma potenza
di una lotta tra dei.

     Che si debba combattere
senza fuggir la sconfitta, 
anelare vittoria, triste 
a cui ci si condanna,
ma sia sol per Onor,
Impeccabile Volontà 
e del Cuor tutto il Coraggio 
che tuona fra i Regni.

             

mercoledì 18 gennaio 2017

Poussin - A dance to the music of time (1635)

     V'era il tempo a cui notte
l'onda del giorno seguitava
ed alla luna ogni cosa riversandosi
la mortal battaglia inondando
divin guerra divenne
ed io in essa, non più riflesso di schiere
d'elmi la ferocia e di spade le grida
ma pioggia, che spegne e disseta,
e vento furente, di carestia striato
sotto un cielo di foglie
per trovar sulla colonna
lignea il ristoro
e cometa, oltre gli astri scagliata
che i cieli come squarcio in questa notte disvela.
    Orrenda alla fiamma che rigenera
l'anima mia incenerita, quand'anche
accecato dal sole
offuscato, men reale giacchè or vero
ruotava ed in me
vedea fin dentro dissolto
in mille
ed una ed una più in cento forme conobbi.
     Or di drago l'artiglio ed il pasto,
ora sepolto di radici il castello 
s'abbevera. Ora fresca nube, che valle adombra
col suo amore distante
la paur mia tempera ed apparvi
dal tuono del mare, ruggito del cuore
ch'espandendosi si ritrae, che ritraendosi
il cosmo include
e questa sera abbraccia
d'un suono silente, che l'oceano assorda
nel sogno. Celesti creature
che nell'orrore controparte hanno
ed in esse il partorire
ed in esse stesse il perir dell'inganno
quand'anche il nome è risuonar del vuoto vaso.
    Ed immagine risuona, dall'illusione liberato
oltre l'eterno dimentico
è il tempo dell'istante, del mio smarrire
e poco oltre nella misura, di un battito
il ricordare è il canto sul ramo,
il bacio nel vorticar della vita.
     Io fui smarrito, nel cercare il tuo viso
singhiozza il racconto, per un attimo senza
principio, fui capace di volare.


lunedì 26 dicembre 2016

Leonardo da Vinci - La scapigliata


Divenni poi d’un tratto così immenso
che a guardar da fuori sempre
compreso in essa mi trovai.
     Cedetti cento vite
al suolo duro della prova
d'inganno e seduzione
il cui sigillo cela,
della vita fugace
il suo veloce epitaffio,
per sparir poi dove proviene
ogni momento apparso, la storia di pietre
e monumenti e l’insano manifesto numerato.
     Ma così immenso, largo
così da contenere i soli delle galassie tutte,
fiorenti, di un fuoco sì fresco
come candide dita d’una mano
che in aprile, con labbra ancor tiepide sfiorai
per scordarmene poi nei giorni di lutto senza fiato
di festa furente, nelle sere in cui credetti d’esser ascoltato
ed in me, riflettei
sinceramente vivo. Ma invero distante nel reale.
     Un sorriso d’amore,
come pioggia d’agosto l’inaspettato tuonar
ovunque scroscia,
per rimbombar sì tosto a veleggiar
oltre questa e quell’altra stella,
abbandonar il mite porto
da colonne difeso, a costo della vita protetto,
ed oltre ancora mi mossi, senza l’artiglio del peso,
ed ancora più oltre
libero, d’un sentir d’ambrosia e vino nella gola cocente
in un tripudio di gioia che gli occhi m’inebria
ed il cuore infiamma. Lo scattar dei muscoli di Areione,
ed ancor più oltre, ancora
ed ancora
oltre, fin oltre
i firmamenti quando il tempo si dissolve
nella veste della coscienza
che la mente assordata slega
col silenzio che ai miei nomi allude,
esperta cortigiana nell’arte dell’amore,
ma essa quaggiù tace, quell’attimo giusto prima
che la creta l’avvolga
ed in scrittura si conosca.
     Cieca, dirò, come folgore annerisce in cenere
le anguste passioni,
umane, la mia vile vita meschina tutta
e le leggi mortali,
e la legge divina,
quando umiliato piansi
gli inverni innevati a cercar conforto
tra i grossi seni di una locandiera
ed alle prime luci di primavera mi ribellai
sentendo già ormai vecchie le antiche afflizioni,
divenir di dolorosa carne in terra.

     E così come musica, che tutto lo spazio prende
un profumo che non ha centro nè padre
ogni fiore lambisce,
dalle verdi timide foglie si leva la rugiada ed il canto
fin sopra l’aria, i mari, sopra le nubi
fin oltre i campi ed il sole e gli astri lucenti.
Una danza di fiamme e scintille nella volta dei cosmi, infiniti
la musica colora ogni piccola cosa,
si posa e dissolve, vivifica e si spegne.
     E rubini, giade d’un verde smeraldo, iracondi rubini
d’un rosso di sangue nello spazio ch’io or sono,
e già non più del mondo partecipe
cui parola mi lega, sulle ali m’involo
per terre lontane, un’oceano silente
ma pur vivo nella forza e sapienza, silente
l’eterna natura,
dimora delle solitarie armonie,
nei volteggi d’una così immensa sinfonia
che in me si fa vita ed amore paziente
gioioso, inascoltato.
     Così immenso, da non esser più
nient’altro che
impronunciabile bellezza.

mercoledì 16 novembre 2016

Les Amants - Magritte (1928)

Il nostro commiato è un'altro saluto
nell'inganno del tempo,
men timido in fondo e mi son perdonato.
Siam'ora in altrove
dove nulla più si può dire,
oltre questo sentire
d'esser presenti,
innanzi al sapere
che col sapere, condivide natura.
    Ti proteggi con cura e mano sì delicata
muovendo lo spazio della sacra coscienza.
E semplicemente io sono
per non dissolverci al gelo,
come pianto nella notte è brina del mattino.
Ancora sopito al destarsi dell'hashisch
che avvolge il sentire in un caldo narrare
in un istante sul vuoto esso stesso si schiude.
Così come ieri accadde,
quando il regno varcasti, della disperata fantasia
e i petali si fan fiori
furiosi, ed ogni cosa in colori esplode.
Ed il vorticar del non quì, sui pensier si abbatte.
Ma saper poi partire, mi dici
così come si è giunti. Prima
che la tormenta trascini
nel fondale il vascello e di uomini il carico.
    La promessa del noce
appesantito dai frutti,
che fu promessa di frutti
prima venuti e poi al garbino danzanti.
O delle ginestre al libeccio ribelle
sullo sfondo l'egeo, pungente e indomato.
Nel mare ogni cosa, è da sé stessa turbata.
In quest'ora racconti
alludendo all'addio
come nessuno mai
ci può abbandonare
se non per finzione
ad esso concessa.